martedì 23 ottobre 2012

L'orgoglio della classe operaia


E' in fila, davanti a me, al supermercato. E' anziano, cammina con il bastone. Potrebbe avere settanta anni, ma forse anche di più. Lo vedo di spalle. Quello che mi colpisce è la sua giacca: è quella di una tuta da lavoro. Ha una scritta a caratteri grandi sulla schiena curva. C'è scritto IVECO. Capisco che è la giacca che portava in fabbrica, quando lavorava, 10 o forse 15 anni fa. L'ha tenuta ancora, forse gliela consegnarono proprio pochi mesi prima di andare in pensione e non si è consumata. La porta con fierezza, come se fosse una divisa. Si sente ancora di appartenere orgogliosamente ad un gruppo. Una volta si chiamava l'orgoglio della classe operaia. Era la dignità dei manovali, dei muratori, dei metalmeccanici, degli addetti ai forni, alle catene di montaggio, ai laminatoi. L'orgoglio di chi, nei cantieri edili, diceva ai colletti bianchi di non fare tante chiacchiere, perché erano loro, gli operai, con le loro mani a “tirar su la casa”. Erano tanti. Credevano di essere come la benzina in un motore. Si sentivano indispensabili. Erano quelli che facevano il lavoro sporco, che rischiavano in prima persona, nel caldo degli altoforni, al freddo nei cantieri, vicino alle presse nel rumore dei capannoni. Erano come truppe al fronte in una guerra di trincea. Solidali gli uni con gli altri. 
Abitavano tutti negli stessi condomini. Gli edifici che l'azienda aveva costruito per i suoi operai; magari vicino alla fabbrica, così al lavoro si andava a piedi o in bicicletta, nel quartiere a ridosso della zona industriale, dove la polvere di silicio delle ciminiere si depositava sui davanzali. Compagni di lavoro e vicini di casa. Tutti uniti nello stesso destino, stessa fede, stesso credo politico. E quando c'erano da fare rivendicazioni sindacali, il gruppo scendeva in piazza, compatto. E l'Italia si fermava.

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